venerdì 8 giugno 2012

VIA POMA, I GIUDICI D'APPELLO: "NESSUNA PROVA DELLA COLPEVOLEZZA DI BUSCO"

SIMONETTA CESARONI

«Non vi sono elementi per ritenere provata al di là di ogni ragionevole dubbio la penale responsabilità di Raniero Busco» dall'accusa di omicidio aggravato ai danni di Simonetta Cesaroni, uccisa con il 7 agosto 1990 in via Poma. È quanto emerge dalle motivazioni della sentenza della Corte di Assise di Appello. A 42 giorni dalla sentenza della I corte di assise di appello che ha assolto Busco, per non aver commesso il fatto, sono state depositate le motivazioni. Si tratta di 186 pagine in cui il collegio presieduto da Mario Lucio D'Andria (l'estensore della sentenza è Giancarlo De Cataldo) sono spiegate le ragioni per cui Busco non è ritenuto responsabile, così come sentenziato in primo grado (24 anni di reclusione inflitti), per quello che rimane uno dei grandi misteri di cronaca giudiziaria di Roma.

"BUSCO, NESSUN MOVENTE" Non c'è alcuna prova che Raniero Busco avesse un movente per uccidere l'ex fidanzata Simonetta Cesaroni. Lo scrivono i giudici della I Corte d'assise. Tra l'altro si accenna al ritrovamento di «tracce biologiche ed ematiche attribuibili a due diversi soggetti di sesso maschile che non possono identificarsi con Raniero Busco». 
La relazione dei due ragazzi - si legge nelle motivazioni della sentenza - «poteva essere problematica», ma dagli atti processuali e dal dibattimento «non sono emersi atti specifici di violenza commessi dall' imputato in danno della vittima, nè si può affermare che Busco sia portatore di personalità violenta». Inoltre, non c'è prova che fra Simonetta e Raniero «si fosse convenuto di incontrarsi il pomeriggio del 7 agosto presso gli uffici di via Poma, e non vi è nemmeno prova che Busco conoscesse il luogo di lavoro di Simonetta». 
Sull'alibi fornito da Raniero, i giudici scrivono che non vi è prova sia stato un «alibi mendace», essendoci di contro elementi che «inducono a ritenere che egli abbia, sin da subito, ricostruito i movimenti del pomeriggio del 7 agosto in termini sostanzialmente coincidenti con quelli poi emersi nel corso del dibattimento. In ogni caso, si può al massimo parlare di alibi carente ovvero assente, ma non mendace». 

"MORSA? NON CI SONO PROVE" Non vi è prova che in occasione dell'omicidio di Simonetta Cesaroni «le fu inferto un morso». È uno dei 'punti fermì nella sentenza della I Corte d'assise di Roma che ha assolto Raniero Busco dall'accusa di aver ucciso l'ex fidanzata. E, anche qualora - si legge nelle motivazioni della sentenza - «contro l'opinione del collegio peritale, si dovesse ritenere che le lesioni al seno siano da ricondurre a un morso, ancorchè parziale, una sua attribuzione all'imputato Raniero Busco non sarebbe scientificamente sostenibile». 
Per i giudici, Simonetta Cesaroni fu uccisa fra le 18 e le 19 del 7 agosto 1990 (durante le due inchieste sul fatto di sangue l'ora del delitto ha avuto un andamento 'basculantè) e «chi commise il delitto, o altra persona, ripulì accuratamente la scena del delitto», portando via la maggior parte degli indumenti della ragazza. 
Sul reggiseno e sul corpetto «sono presenti tracce di Dna minoritario riconducibili a Raniero Busco», ma «non è provato che le stesse siano state rilasciate in occasione del delitto: non vi è prova che gli indumenti indossati da Simonetta fossero stati sottoposti a lavaggio tale da rimuovere completamente ogni traccia che poteva essersi depositata durante l'incontro che Simonetta Cesaroni ebbe con Raniero Busco tre giorni prima del delitto».

"PROVE NON CONVINCENTI" Già in primo grado i giudici che si sono pronunciati, condannando Raniero Busco, sull'omicidio di Simonetta Cesaroni, si erano soffermati su alcuni punti della vicenda che, a loro dire, il dibattimento non era riuscito a chiarire: adesso i giudici d'appello li fanno propri e rilanciano. Su tutti: «la resistenza della portiera Giuseppa De Luca (moglie del portiere Pietrino Vanacore, suicidatosi alla vigilia della sua deposizione nel processo di primo grado,ndr) a consegnare le chiavi (dell'ufficio di via Poma,ndr) al personale delle Volanti della Questura», ma anche il non giustificabile possesso delle stesse che «erano il mazzo di riserva degli 'Ostellì, e non avrebbero dovuto trovarsi nella disponibilita della donna». 
E poi: il ritrovamento dell'agendina rossa di Vanacore fra gli effetti personali di Simonetta, nonostante lui «aveva sempre dichiarato di non essere entrato in quell'ufficio prima dell'accesso che avrebbe portato alla scoperta del cadavere». Infine, i giudici d'appello si soffermano sulla «lettura unitaria della vicenda» proposta dal pm durante il processo di primo grado. Ricostruì il pm -dicono in sostanza i giudici della corte di assise di appello - che il portiere Vanacore, avendo trovato socchiusa la porta degli uffici di via Poma era entrato, aveva trovato il cadavere e, invece di chiamare la polizia, aveva cercato di contattare telefonicamente i «possibili personaggi di rilievo» interessati alla vicenda (direttore e il presidente dell'Aiag ma anche i datori di lavoro di Simonetta), lasciando l'agendina Lavazza sulla scrivania di lavoro della ragazza; quindi era uscito chiudendo la porta a chiave utilizzando le chiavi che si trovavano appese allo stipite della porta d'ingresso degli uffici.
«Il primo giudice - si legge nella sentenza d'appello - ritenne questa ricostruzione suggestiva, plausibile, ma, ovviamente, non provata, e concluse per la sua sostanziale irrilevanza, attesa l'acclarata responsabilità di Busco. L'impossibilità di addivenire in questa sede a una tranquillante certezza in ordine alla responsabilità di Raniero Busco ripropone, rendendoli ancora più inquietanti, gli interrogativi sopra evidenziati». 

Fonte: Leggo

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